Disoccupazione o "suicidio del virus"?


Ho fatto una ricerca per capire, in termini numerici, qual è la situazione dei disoccupati in italia (dove per disoccupati intendiamo chi cerca il lavoro e non gli inattivi in generale).

I dati non sono aggiornatissimi, ma si riferiscono a giugno 2010, in cui il numero dei disoccupati aveva toccato quota 2 milioni 194 mila, con oltre 500 mila licenziamenti (entro fine anno si arriverà, secondo le previsioni, a circa 950 mila).

Questi numeri sono molto più chiari se correlati al numero di aziende chiuse nel 2009: 11.477. E dall'inizio del 2010 c'è stata un'ulteriore aumento di procedure fallimentari, del 46%.

Sono numeri che parlano da soli, drammaticamente realistici per chi oggi si ritrova a cercare un nuovo posto di lavoro, forse non sempre così chiari a chi invece un lavoro ce l'ha.


Dico questo perché con la mia professione mi capita di incontrare ancora persone che passano la giornata a lamentarsi delle "imperfezioni" dell'azienda, che il titolare si dimentica le cose, che la pausa del caffè è troppo breve, che bisogna fare gli straordinari al sabato, che l'azienda pretende sempre più sacrifici e così via.

Fermo restando che è assolutamente giusto e sacrosanto impegnarsi per rendere il luogo di lavoro sempre più confortevole e piacevole per tutti, trovo però paradossale che ci siano ancora persone che devono essere "convinte" a lavorare, quando fuori è pieno di brava gente che ringrazierebbe mille volte per avere uno stipendio sicuro.

Buona parte del mio lavoro consiste nel trasferire a manager e imprenditori l'importanza della piena soddisfazione di un collaboratore, ma rimango io stesso sorpreso nel vedere in alcuni dipendenti una sfacciata ostilità nei confronti dell'azienda o un assoluto disinteresse per il proprio lavoro. Io ho rinominato questo comportamento "il suicidio del virus". Il virus infatti intacca e pian piano uccide il corpo che lo ospita, non calcolando il fatto che morto il corpo muore anche lui stesso. Allo stesso modo gli atteggiamenti apertamenti distruttivi, volti solo a creare zizzania, a fomentare malcontento, ad incitare ad una ribellione per tutto ciò che non va (invece di fare concretamente qualcosa per farlo andar meglio) assumono a volte lo stesso irrazionale atteggiamento del virus, che perisce insieme a ciò che distrugge. Perché questi atteggiamenti, se diffusi, di fatto distruggono un'azienda. Ed a pagarne le conseguenze saranno anche le cellule sane, ovvero tutti coloro che invece si sono sempre impegnati per il bene dell'impresa e, di conseguenza, per tutti coloro che ci lavorano dentro.

Può sembrare una riflessione ovvia, ma probabilmente c'è ancora qualcuno convinto che il diritto ad essere ostili e improduttivi debba essere salvaguardato ad ogni costo, sindacati in testa. Con le seguenze che tutti noi vediamo oggi e che saranno sempre più evidenti se proseguiremo per questa pericolosa strada.

6 commenti:

  1. ... Può darsi che qualche volta vada così.
    E' mia diretta esperienza vedere (mi occupo di consulenza agli imprenditori) come spesso il collaboratore che "collabora" all'attività dell'azienda prestando tutte le sue capacità, di fatto, venga usato dal titolare con l'arroganza di chi ha acquistato non l'ingegno e l'opera manuale o intellettuale di un uomo ma un macchinario che deve essere sfruttato al massimo perché il suo costo è stato salato.
    A mio avviso è luogo comune che chi è titolare si arroghi un pò il diritto di "farla da padrone" e spesso inconsciamente, tant'è che se glielo facessimo notare si sentirebbe accusato ingiustamente. Ed è anche vero che il collaboratore cerca di farsi gli sconti e magari fomenta altri. E' così che nell'azienda nasce lo scontento, l'imbroglio, il disgusto da ambedue le parti.
    Sarà forse che nel nostro tempo ci si è dimenticati dell'esistenza di canoni e regole "etiche" e "morali"?
    E se prima di vedere i nostri "ruoli" nell'azienda riflettessimo sul rispetto per l'altro, sull'importanza di lavorare bene e con passione per godere prima di tutto dell'opera delle nostre mani, sul dare a ciascuno quanto gli spetta; non troveremmo in questi ragionamenti la capacità di essere "veri" uomini portatori di benessere e sinergia capaci quindi di improntare rapporti nuovi e rivitalizzati anziché ruoli?
    Rachele Sannia
    La Galassia dei Servizi

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  2. Ciao Rachele,
    la tua è una giusta riflessione. Ovviamente non esiste il giusto o lo sbagliato, non ci sono i buoni e i cattivi, i contenti e gli scontenti.
    Ci sono esseri umani, con le loro paure, le loro debolezze, i loro desideri, le loro passioni. Dalla parte degli imprenditori come dalla parte dei collaboratori. La mia riflessione era rivolta a chi ha ancora un approccio nei confronti del lavoro o del proprio titolare di manifesta ostilità. Capisco che alcuni imprenditori abbiano atteggiamenti autoritari o arroganti, ma chi è bravo davvero cambia lavoro (e lo trova), non rimane per opportunismo e con lo scopo di distruggere.
    Questo lo trovo ingiusto e masochista.
    E' ovvio che l'ideale sarebbe una collaborazione aperta e spontanea, ma quando parliamo di aziende piuttosto strutturate tutto questo diventa più complesso.
    Ma qui entreremmo in discorsi troppo lunghi.
    Grazie ancora per il tuo contributo Rachele, e se ti fa piacere continuiamo a scambiarci opinioni in merito.

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  3. Ti ringrazio Fabrizio,
    per la possibilità di scambio in questo spazio ricco di spunti di riflessione. Riprendo: "...capisco che alcuni imprenditori abbiano atteggiamenti autoritari o arroganti, ma chi è bravo davvero cambia lavoro (e lo trova), non rimane per opportunismo e con lo scopo di distruggere".
    Sono perfettamente d'accordo con te!
    E' chiaro che chi rimane in azienda ponendo in atto atteggiamenti deleteri è semplicemente abbietto sia che ricopra un ruolo in un'azienda grande o in quella di modeste dimensioni.
    La mia riflessione mira a cercare di capire e, avere anche ampio confronto, su quanto certi atteggiamenti spesso siano inconsapevoli.
    Non consapevoli nel senso che si agisce senza riflessione, quasi d'impeto, seguendo modelli e pulsioni precostituiti intrisi di mal costume e spesso paure.
    Voglio dire che se l'imprenditore e il collaboratore iniziassero a "ri-formarsi", a "ri-entrare" dentro se stessi cercando di capire il motivo dei loro atteggiamenti forse la cultura d'impresa e l'impresa stessa potrebbero essere strutturalmente modificate
    perchè una forza nuova entrerebbe in gioco: la responsabilità delle proprie azioni nei confronti degli altri.
    Abbiamo esempi di aziende, anche di grandi dimensioni, (addirittura posso citare una struttura pubblica) dove il CAPO attento, colloquiale, retto nei giudizi, non iroso, imprima all'interno dell'azienda una forza rigeneratrice capace di creare armonia da cui tutti traggono non solo un profitto lavorativo ma un miglioramento personale e con esso la capacità di arginare coloro che creano disturbo,
    diciamo che si attua una selezione naturale basata sul vivere di qualità. Non ridete non è l'Eden, solo un modo di creare sinergia e collaborazione su basi etiche.
    Forse con una Formazione più attenta, più vera, senza tanti slogan ma che miri a rendere le persone consce delle conseguenze dei propri atti potrebbe in qualche modo aprire strade nuove e iniziare un percorso prima di tutto culturale.
    Ho visto diverse realtà aziendali cimentarsi in questa difficile impresa ma purtroppo sono ancora poche.
    Forse la FORMAZIONE seria e l'IMPEGNO responsabile dei singoli soggetti potrebbero fare delle nostre aziende delle oasi quasi felici.
    Pura utopia? Forse, però io scommetto!

    Rachele Sannia
    La Galassia dei Servizi

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  4. Caro Fabrizio, a volte ti fai prendere la mano anche tu!
    L'accostamento di certi atteggiamenti, spiacevoli si', sono d'accordo, ma comunque comprensibili nelle dinamiche datore/prestatore, ad un virus fa pensare che sposi al 100% l'idea che la competitivita' del nostro paese sia compromessa dal costo (parole che mi repelle) del lavoro con annessi e conessi tipo quelli che citi nel post.
    Ti stimo troppo troppo (lo dico sinceramente) per credere che lo pensi veramente: lavoro nelle risorse umane da anni e ormai sono convinto, anzi no, certo, che il vero virus abbia il volto dn una classe dirigente totalmente inadeguata, sia a livello politico ma soprattutto a livello aziendale. E' su quel piano che bisogna lavorare, ce ne vorrebbero 100 come te!

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  5. Ti ringrazio molto Toratora (a proposito, mi piacerebbe conoscere il tuo vero nome!).
    Se frequenti questo blog da tempo sai bene che la prima responsabilità tendo ad attribuirla sempre a chi gestisce (quindi a dirigenti, imprenditori, politici, etc.).
    Le persone non rappresntano mai un costo per l'azienda, fino a quando non cominciano a viverlo come un diritto acquisito e il lavorare non si trasforma in un "aspettare che finiscano le 8 ore". A quel punto, come molti apparati pubblici dimostrano, quella persona diventa effettivamente un costo (è brutto da dire, ma è la triste verità). Per far andar bene le cose la responsabilità dev'essere sempre doppia, non può funzionare a senso unico. Ecco perché dico che lamentarsi, protestare, criticare, senza voler migliorare davvero le cose diventa un'attività puramente distruttiva per tutti.
    Spero di aver chiarito meglio cosa intendevo dire con questo post ;)

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  6. Ciao Fabrizio,
    come darti torto? Sono cose odiose quelle che citi: lamentele per il gusto di lamentarsi, l'attesa di timbrare il cartellino, il vizio di remare contro...figurati, come ti ho detto lavoro nelle risorse umane, non hai idea di quante ne ho viste e sentite in questi anni.
    Ma poi, dopo l'incacchiatura del momento, mi fermo a riflettere: ma e' veramente questo che determina l'improduttivita'?
    Se ad esempio vediamo un collega che cazzeggia un'ora per far venire le sei, siamo sicuri che sia improduttivo? Non sara' magari che dopo cinque anni ha una tale padronanza della sua mansione che riesce a terminare il suo lavoro con un po' di margine?
    E quando il capo dice: "quello lo licenzierei!" siamo sicuri sia una scelta giusta? Forse non abbiamo idea delle conseguenze, in primis economiche, che ha il turnover...
    No Fabrizio, penso che il gap di competitivita' si trovi nella "deresponsabilizzazione" degli attori dei processi decisionali, nella mancanza di comunicazione interna, nella incapacita' di considerare i costi delle risorse e in quanto tali valorizzarle.
    Insomma, diciamocelo, se un'azienda va male non si puo' dar la colpa a chi esegue ordini, anche se lo fa lamentandosi...
    Grazie per lo spazio concesso e Auguri di Buone Feste!

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Fabrizio Cotza - Formatore Sovversivo.
www.fabriziocotza.it