In cosa credo e in cosa non credo più

Quando si fa un determinato percorso, e ci si volta indietro a guardare ciò che si è fatto, capita di trovare un po' estranea quella persona che credeva in determinati concetti, obiettivi, scopi di vita.
Il non riconoscersi più non sta a significare che quel "tu" di allora fosse sbagliato, ma semplicemente che lo si vede come un passaggio necessario per arrivare ad altro. Così come il cammino di oggi potrebbe, un domani, apparire non più appropriato rispetto a ciò che saremo.
Ovviamente non tutti riescono a comprendere che tu non sia più quello di allora, e potrebbe accadere di venire accusati di rinnegare ciò che si era o ciò in cui si era creduto. Oppure di non riuscire più a comprendersi con chi invece sta facendo un percorso diverso dal tuo.

Dico questo perché nel mio ruolo di consulente e formatore sto vivendo questa esperienza, in cui determinati concetti quali la "motivazione" o le "emozioni" non rappresentano più, per me, le vere chiavi per evolversi (sia come persone che in termini professionali).
Non perché non creda più nella motivazione o nelle emozioni, anzi. Ma perché la maggiorparte delle persone ne parla senza neppure sapere che le emozioni, per come le intendiamo comunemente, sono in realtà manifestazioni meccaniche ed artificiali ben diverse da ciò che dovrebbero essere realmente.
Usare le emozioni per ottenere un proprio obiettivo (il più delle volte legato all'Ego) equivale ad usare la Fede per assoggettare un popolo. Il problema non sta tanto nella Fede della singola persona (cosa bellissima e da preservare), ma nell'uso strumentale che ne può fare chi ha capito come funzionano alcuni "meccanismi umani" (come ad esempio il "senso di colpa").
Uso strumentale che, tengo a ribadirlo, dà innegabilmente grandi risultati in termini di profitti, risultati, successo, potere.

La grande difficoltà consiste nel rendere consapevoli le persone delle bugie che esse stesse si raccontano, nel sostenere che queste emozioni vengono "utilizzate" per gli altri, per farli stare meglio, per aiutarli a raggiungere anche i loro obiettivi.
La riprova è data dal fatto che se l'utilizzo di queste tecniche non porta risultati concreti non è vero che si è comunque contenti di aver suscitato emozioni positive in chi ci stava di fronte.

Semplificando: se uso queste tecniche per motivare i miei collaboratori o per vendere più facilmente qualcosa, ma poi il mio collaboratore non è produttivo o il mio potenziale cliente non compra, non è vero che io sono "contento comunque". Perché il mio vero obiettivo è un altro. L'uso delle emozioni, in poche parole, è solo un mezzo.
Questo non è sbagliato di per sè, ma stona se io poi affermo che il mio obiettivo è "la soddisfazione dell'altro".

E' risaputo che un collaboratore motivato sarà tendenzialmente più produttivo. Ma questo è il mio obiettivo, non necessariamente il suo.
Un collaboratore stakanovista non è necessariamente più soddisfatto o felice.
Certo, finché teniamo vivo il falso mito che "avere di più crea maggiore felicità" questo giochino funziona per tutti, poiché l'avere di più è un obiettivo irragiungibile (si può sempre avere di più) che permetterà di usare all'infinito la leva motivazionale.

Ma ciò è piuttosto lontano da un approccio legato alla Consapevolezza. Che non è un concetto teorico o mistico, ma estremamente concreto e pratico, poiché parte dal presupposto che la felicità non può dipendere da ciò che ottieni fuori da te, così come le tue emozioni non possono essere legate a come gli altri si comportano con te.
Comprendendo questo concetto un venditore "emozionale" potrebbe smettere di essere efficace, poiché l'Ego del cliente non verrebbe stimolato e lui non avrebbe più tecniche da utilizzare.
Poiché l'Ego è gigantesco in tutti noi, un venditore emozionale avrà più successo di uno che decide di non usare questi strumenti per vendere di più.

Ebbene sì, l'approccio consapevole ha un prezzo. Non dà risultati immediati. Poiché non baratta la propria vera felicità con i risultati che la Società ci dice di dover raggiungere per "essere felice".
Ma questo discorso è talmente lontano da ciò che il mondo circostante ci inculca, da apparire inizialmente come un'inutile sacrificio che non porta nessun beneficio.
Purtroppo solo in pochi hanno la forza, la costanza e il coraggio di sperimentare i meravigliosi effetti che l'accesso Consapevole al Super Conscio dà, una volta che si comincia a sperimentare questo nuovo percorso. Ma non basta un post o un corso di formazione per trasferirlo. Men che meno una "vendita" emozionale.
Serve che la persona sia pronta a mettere in discussione tutto (o quasi tutto) ciò che fino a ieri ha ritenuto fosse innegabilmente vero ed unica fonte di felicità.
Lo so. Per niente facile.

4 commenti:

  1. ciao Fabrizio. Un pò complesso questo post. Io ti do un mio parere. L'importanza della consapevolezza delle proprie emozioni è ciò che Goleman postula da 20 anni a questa parte. Essere consapevoli delle proprie emozioni significa saperle dosare, modulare, talvolta estromettere, per il raggiungimento di un obiettivo. In più se si è consapevoli anche delle emozioni dell'altro, ossia si riesce a comprendere empaticamente esigenze e aspettative dell'altro, ci può essere un perfetto incastro comunicazionale e uyna positiva transazione economica, se di questo si tratta.
    Nell'ambito del lavoro e delle vendite, dove il soldo è l'obiettivo primario, chi è consapevole delle proprie emozioni ha una marcia in più nei confronti del potenziale acquirente, ma solo se riesce a decifrare e ad accogliere, accompagnandole verso la propria meta, le emozioni e le esigenze dell'interlocutore.
    Credo che l'aspetto motivazionale sia ancora centrale nelle transazioni commerciali come in quelle relazionali toutcourt.
    Dalla motivazione parte tutto.
    Non credo, invece, ai corsetti sulla motivazione che galvanizzano decine di manager in crisi d'identità cieci rispetto alle proprie emozioni (e che lo rimangono ciechi, forse ancor di più, ipnotizzati dallo slogan dopo il corso).
    Gli slogan, i palloncini, i "teniamoci mano nella mano" che siamo più forti, si bruciano di fronte alla realtà che è moooolto più complessa di quanto i "motivatori" ci vogliono far credere. Poi troviamo, dopo qualche mese dal corsetto, perchè all'inizio ogni risultato positivo viene legato ai soldi spesi per il meeting, gente psicologicamente disorientata in cerca....di un altro corsetto.
    Per questo, e scusami la lungaggine, ma sono argomenti che "bazzico" da un pò e che amo, sono d'accordo con te.
    Bisogna partire dalla consapevolezza, ossia dalla conoscenza dei propri limiti e delle proprie potenzialità, delle proprie motivazioni e delle proprie emozioni che sono figlie del pensiero e delle aspettative. Cambiando pensiero e aspettative, cambia tutto il resto. E, talvolta, mostrando onestamente i nostri limiti all'interlocutore, supportati da una forte motivazione, possiamo riscontrare il suo favore e il suo ascolto attento.
    Ciao!!!
    Bruno

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  2. Ciao Bruno,
    le tue riflessioni sono, come sempre, attente e circostanziate.
    Stiamo evidentemente facendo un percorso simile... tanto che mi verrebbe da dirti: unisciti a noi ;)
    Sentiamoci via mail, sarà un piacere fare una chiacchierata più approfondita su questi argomenti!
    Un abbraccio.

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  3. Ciao Fabrizio,

    complimenti per il post. Ti seguo spesso, ma questa volta mi hai colpito, forse perchè sulla stessa strada ci sono anch'io.

    Evidenzio in particolare 2 passaggi:

    "E' risaputo che un collaboratore motivato sarà tendenzialmente più produttivo. Ma questo è il mio obiettivo, non necessariamente il suo."

    e

    "Ebbene sì, l'approccio consapevole ha un prezzo. Non dà risultati immediati. Poiché non baratta la propria vera felicità con i risultati che la Società ci dice di dover raggiungere per "essere felice"."

    Probabilmente in questi due passaggi è perfettamente riassunto il panorama in cui molti formatori e coach si muovono. Con l'obiettivo principale di "vivere" si adeguano al cliente, che spesso è l'azienda, e questo non porta al passaggio più importante: il percorso verso la consapevolezza.

    Quello che normalmente è definito Life Coaching è secondo me la disciplina principe, tutte le altre sono declinazioni. Purtroppo questo non è valorizzata dalle aziende (troppo richiosa...) e molte persone sono scarsamente sensibili.

    Il problema è che la prima qualità di un coach dovrebbe essere la passione per l'uomo. Ma se nei vari corsi ufficiali (ICF) puntano principalmente al business ed executive coaching, lasciando il life laterale, si capisce bene l'impostazione. Si punta più a chiedere più tecniche di colloquio e conoscenze di marketing che sensibilità verso l'uomo.

    Di nuovo, complimenti per il tuo lavoro.

    Ciao

    Valerio

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  4. Ciao Valerio,
    in effetti il mondo della formazione e del coaching si trova ad un bivio.
    Da una parte chi ha bisogno di prostituirsi per imbonire i propri clienti, nella speranza di renderli sempre più "dipendenti" ma non dando in questo modo nessun vero valore (la verità a volte non piace ai nostri clienti).
    Dall'altra chi è disposto a perdere qualche cliente pur di salvaguardare la propria integrità personale, oltre che professionale.

    Un cliente dovrebbe far tesoro di questo consiglio, per non cadere in mani sbagliate: osservare quanto il suo consulente/formatore/coach ha paura di perderlo come cliente. Se passa troppo tempo ad elogiarlo e non ha il coraggio di dirgli in maniera ferma cosa deve modificare nel suo comportamento vuol dire che è lì solo per coccolare il suo Ego e non per aiutarlo a crescere.

    Dall'altra parte sono anche convinto che ciascuno sceglie chi avere attorno a sè. C'è anche chi preferisce pagare giullari e menestrelli pur di appagare la propria vanità...

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Fabrizio Cotza - Formatore Sovversivo.
www.fabriziocotza.it